La Realtà, la sua conoscenza mistica, la sopravvivenza dell’Io (r3)

“Le montagne finiranno col non essere più montagne per tutti voi ma, a poco a poco, ritorneranno ad essere tali, anche se avranno, per voi che le osserverete con occhi diversi, una qualità ed una realtà nuove”.
Avevamo espresso questo concetto già parecchio tempo fa, ed era riferito a colui che si accosta, segue e introietta l’insegnamento che, tramite nostro, viene proposto. Ma che significato ha un discorso del genere?

Chi viene a contatto con l’insegnamento deve rendersi conto che deve essere pronto ad accettare il fatto che la realtà a cui era abituato perderà il consueto significato, trovandosi ad essere continuamente in discussione e a subire modifiche sostanziali.
Questo, inevitabilmente, porta a dei sommovimenti interni – non sempre piacevoli perché il nuovo spaventa sempre, anche quando attrae – e le vecchie concezioni, i vecchi schemi mentali si scontrano con i nuovi concetti e le nuove direzioni in cui viene incanalato il pensiero dall’insegnamento stesso.
Senza dubbio, questo porta sempre l’individuo ad un momento di confusione interiore, ad uno sconcerto, alla sensazione che – tutto sommato – era meglio prima quando non si osservavano le cose con una certa prospettiva.
Infatti la vita, la realtà, i sentimenti, il proprio modo di essere vengono apparentemente distrutti per far posto all’idea di una realtà diversa e, apparentemente, sfuggente ed incontrollabile. Ma questa è una fase passeggera provocata dal primo contatto con le nuove realtà: quando il contatto si fa più serrato, più completo, quando l’edificio non ha solo le fondamenta ma inizia a mostrarsi in uno schema più strutturato anticipando il disegno finale, ecco che l’individuo finisce per risolvere i contrasti e modificare se stesso in maniera da adeguarsi alla nuova realtà.

In effetti, “le montagne torneranno ad essere montagne” ma l’individuo che le osserverà le vedrà diverse: non più solo delle formazioni rocciose da osservare e ammirare, ma un’estensione di se stesso con la quale si può partecipare alla realtà e sentirsi unito, tanto che l’ammirazione per la cosa esterna diventerà commozione.

Indubbiamente è uno stato difficile da spiegare con le parole, ma è qualcosa di molto simile al concetto di misticismo che si possiede comunemente.
È un bene questo? Se tutto questo porta l’individuo ad essere diverso nei confronti della realtà che vive e, quindi, nei propri confronti e in quelli dei propri simili, senza dubbio non può essere che un bene; ma aggiungerei anche che è un bene indispensabile da raggiungere: come si può pensare che la società – così palesemente inadeguata e insoddisfacente – possa cambiare, se gli individui che la compongono, uno per uno, non diventano diversi?
Questa diversità non può essere tale solo a livello di conoscenza – poiché la conoscenza, ferma solo a livello mentale, finirebbe per rendere il mondo, la società e la vita dell’uomo ancora più arida e priva di significato – ma deve essere a livelli più profondi, di interiorità, di “sentire” – come noi lo chiamiamo – e diventare non semplice conoscenza bensì vera e propria comprensione.

Nella fase di transito tra la conoscenza e la comprensione, tra la vecchia e la nuova realtà, accade che l’individuo attraversi un periodo in cui tutto gli sembra inutile: “Perché aiutare gli altri se tanto lo faccio egoisticamente?” si chiede; oppure: “Perché darmi da fare se, tanto, già tutto quanto è scritto nell’Eterno Presente?”

Bisogna stare attenti a non cadere nella stessa errata interpretazione che viene data al concetto orientale di non-azione: l’individuo può anche, apparentemente, non agire, non fare nulla di particolare, fermarsi su un prato ed aspettare che un filo d’erba cresca per giorni e giorni… ma questo non significa – o può non significare – “cristallizzarsi”, ovvero fermarsi sulle proprie posizioni.
Quello che conta è che sia attiva la propria osservazione: il corpo può essere immobile e non agire, ma l’attenzione, la meditazione, il dinamismo interiore debbono essere in movimento.
Noi riteniamo che sia più utile agire anche con il corpo fisico: ad esempio per aiutare gli altri. Questo perché anche se i motivi che possono spingere ad aiutare sono egoistici, ciò non significa che la persona che riceve aiuto ne riceva in minor misura che se l’aiuto fosse, invece, altruistico.

In quanto al discorso dell’Eterno Presente, esso non deve indurre in errori di interpretazione: senza dubbio tutto è scritto ma, prima di tutto, esistono delle possibilità di scelta, ugualmente scritte, in cui esercitare il proprio libero arbitrio e, inoltre, una scelta obbligata può essere vissuta in mille modi diversi da diversi individui.
Non è tanto l’azione in se stessa che conta, quindi, per l’individuo, quanto l’osservazione di questa sua scelta e la comprensione di essa, con il traguardo finale di arrivare a non commettere più determinate scelte sbagliate e, questo, non a causa di un condizionamento esterno, bensì per la comprensione interiore dei propri perché, comprensione che farà agire nel modo giusto, anche senza che la mente diriga l’azione.

È difficile far comprendere a un Io qual è la realtà che aspetta l’individuo, allorché egli cessa di esistere: infatti esso tende a pensare che, nel momento in cui si scioglierà tutto ciò che ne costituiva la realtà, non avrà più alcun aggancio con l’individuo.
Non è così: ogni uomo ha avuto un Io tipico del bambino, ma questo non significa che quell’Io – ormai abbandonato per un Io da uomo maturo – non esista ancora come somma di esperienze nella memoria dell’individuo.

Lo stesso accade nel cammino reincarnativo: anche dopo aver abbandonato l’Io di una vita esso rimane come parte della coscienza del proprio vissuto evolutivo, ed è raggiungibile e riconoscibile tanto che tutte quelle personalità dell’individuo esistono ancora e possono essere ritrovate vere e intense come prima, pur avendo perso la loro influenza dinamica se non come base su cui viene costruito l’Io della vita successiva. Non vi è, quindi, un vero annullamento dell’Io, un suo oblio, una sua perdita, bensì una sua memorizzazione come stadio evolutivo, come informazione ed esperienza necessaria per poter essere ciò che si è diventati.

“Manca, però, la memoria di questo!” si può obiettare. Non è vero: manca, almeno fino a un certo punto dell’evoluzione, la capacità di mettersi in contatto con queste aree di “memoria” in cui tutti gli “Io” precedenti vengono conservati.
Quindi a coloro che hanno perso prematuramente i loro cari e si chiedono se li incontreranno allorché lasceranno il mondo della materia noi rispondiamo: l’incontro avverrà, siatene certi.
Potrà non essere reale (ma, per chi vive nell’illusione essa è reale, non dimenticatelo) nei tempi che voi desiderereste, ma non v’è dubbio che, almeno allorché arriverete sul piano della coscienza, troverete tutte le persone che avete amato e non solo, ma se ancora desidererete di incontrarle – nel nome di un affetto passato – con le stesse personalità, con gli stessi Io che un tempo avevano interagito, potrete farlo senza alcuna difficoltà: basterà far predominare nella vostra coscienza evolutiva quella porzione di voi stessi che un tempo quell’affetto aveva vissuto. E ritroverete i sentimenti, la dolcezza, l’amore, la felicità che vi sembravano perduti, resi ancora più limpidi, più veri e più pieni, dalla nuova coscienza raggiunta. Vito


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5 commenti su “La Realtà, la sua conoscenza mistica, la sopravvivenza dell’Io (r3)”

  1. Prezioso!
    Le due porzioni scritte in corsivo più grande sono i capisaldi di questo post prezioso.
    Forte anche quando Vito parla degli affetti per i propri cari defunti.

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  2. Viene qui affrontato un tema importante di cui il ricercatore spirituale deve tener conto, se non vuole rischiare di abbandonare un cammino prima che esso cominci a dare i suoi frutti o cadere in fraintendimenti che possono portargli più confusione che risposte e una visione distorta della realtà. Sta parlando in fondo dell’esperienza del deserto, di quella terra di nessuno, dove la vecchia visione frammentata del mondo ha perso credibilità, ma non è ancora sorta la capacità di vedere la realtà con occhi nuovi, e cioè con gli occhi del sentire. Finché alla concezione duale della realtà, basata sugli schemi del bello/brutto, piacere/dispiacere, giusto/ingiusto, buono/cattivo ecc., non succede una concezione unitaria, che trascende ogni etichetta e condizionamento emotivo e mentale, si continuerà ad oscillare da un polo all’altro del proprio piccolo mondo bidimensionale, senza sapere da che parte stare. Essere o divenire? Stare o agire? Accettare o rifiutare?
    Finché il senso della contrapposizione non diventa coscienza della complementarietà, discernimento della relatività del divenire e capacità di allargare il proprio sguardo, ampliare la prospettiva per andare oltre la polarità degli opposti, la realtà appare come un vicolo cieco.
    Finché la realtà viene osservata attraverso il filtro delle proprie preferenze emotive e mentali, finché rimane preclusa allo sguardo del sentire, dove l’ammirazione diventa commozione, la messa in discussione di quelle preferenze terrorizza l’io. L’io per esistere ha bisogno di quelle credenze, perché di quelle credenze è costituito, teme la morte, perché di fatto non ha consistenza. Forse è per questo che la nostra guida, Vito, a un certo punto ci consola con l’idea di una sorta di sopravvivenza dell’io o almeno della sua memoria?

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  3. La sopravvivenza dell io mi suscita qualche perplessità, perché sapevo che a sopravvivere è la coscienza e quindi semmai le comprensioni acquisite in virtù delle esperienze di un io che poi esce definitivamente di scena.
    Non so se chi parla intende questo…

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    • Marco: leggi più attentamente, vedrai che non intende la sopravvivenza dell’Io tout court, ma del sentire che quell’Io ha generato con tutte le scene collegate a quella manifestazione identitaria.

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