Si offre al prossimo ciò che si è conosciuto e compreso di sé

Vi è un dubbio che assilla spesso tutti coloro che sentono le richieste d’aiuto che provengono dall’umanità che li circonda, e che è sintetizzabile in questa domanda: “È giusto che io mi ritragga in me stesso, che mi ritragga dagli altri uomini che cercano il mio aiuto, o è più giusto che io mi dedichi a essi con tutte le mie forze?”
Ciò che noi spesso vi diciamo sembra essere detto apposta per accrescere la vostra confusione, ma così non è; certo, noi vi diciamo “conosci te stesso”
e nello stesso tempo vi parliamo di fratellanza, di aiutare gli altri, di porgere aiuto a chi ne abbisogna, a chi ne fa richiesta, prevaricando i vostri stessi bisogni; allora volgete spesso lo sguardo alle parole di antichi Maestri cercando una risposta ai vostri dubbi, ma – come sovente accade – restate ancorati a quelle parole, facendo vostro soltanto ciò che più torna comodo al vostro bisogno del momento.
Com’è mio solito fare, ho intenzione di presentarvi, a modo mio, le vicende di alcuni Maestri, con la speranza di farvi comprendere che tra le loro parole e le nostre non vi è poi quella così grande differenza come, a prima vista, potrebbe apparire ma che – semplicemente – accade che voi, rivolgendovi a quegli insegnamenti, recepite le parole e non l’esempio dato dalla vita stessa che quei Maestri hanno condotto.
Tutti i più grandi Maestri ad un certo punto delle loro esistenze hanno incominciato ad andare tra le genti per diffondere la loro dottrina; a portare, insomma, aiuto ai loro fratelli.
Ma io dico di soffermarvi al periodo prima di questa loro espansione, perché è quello l’insegnamento che essi hanno dato, non con le loro parole ma con la loro stessa vita.
L’Avesta, testo sacro dell’Iran, dice che Zarathustra, quando aveva trent’anni, esclamò ad un certo punto: “In quale terra devo andare per fuggire, dove devo andare per essere solo con me stesso?” ed agognava il deserto, anticipando così di parecchi anni il ritiro del Cristo.
Zarathustra (o Zoroastro, se preferite) prima di predicare andò, così, a cercare la propria morte spirituale e a inseguire la sua rinascita, alla conclusione della quale poté dire ai suoi discepoli: “Ascoltate meglio che potete con le orecchie e meditate con mente ben aperta, poiché la decisione tra bene e male deve avvenire all’interno di ogni uomo ed ha valore solo per quell’uomo”.
Anche se ben poco di sicuro vi è pervenuto di Ermete Trismegisto, vi garantisco che la morte e la conseguente rinascita spirituale, in un uomo che ha superato se stesso, erano parte integrante della sua dottrina. Basti ricordare l’iniziazione che si dice avvenisse all’interno delle piramidi, ove l’iniziato veniva lasciato solo e al buio più completo e in balia delle sue paure; cosicché, alla fine, o riusciva a superare se stesso e le paure che aveva in , o veniva tirato fuori da quei luoghi annientato completamente.
Lo stesso Gautama, il Buddha, ebbe bisogno di meditare in solitudine per alcuni decenni, anche se si rese conto che ciò era stato eccessivo, tanto da affermare che “la vita mondana e il totale ascetismo sono solo degli estremi non necessari, ma è grazie alla via di mezzo fatta di fede, di coraggio, di retto pensiero e di giusta conoscenza che si giunge alla beatitudine”. E ciò anche se dichiarò apertamente che “la meditazione in solitudine è una tappa necessaria per migliorare se stessi”.
Di un altro grande personaggio – quel mitico Orfeo, la cui “misteriosofia” influenzò grandemente il pensiero delle epoche successive e pensatori del calibro di Pitagora e Platone – è narrato che dicesse un giorno: “Da uomo sei diventato Dio, ma per farlo devi farti lacerare come me dalle Menadi”, il che, simbolicamente, voleva significare che prima di arrivare a essere Dio, giusto e buono con tutti, è necessario fare se stessi a pezzi per conoscersi, in modo da saper ricongiungere i propri frammenti in qualcosa di più armonioso e completo.
E forse che Mosè, da un momento all’altro si mise a tuonare verso gli Ebrei i suoi insegnamenti e le sue visioni di fuga dall’Egitto? Niente affatto, creature care: prima di fare ciò egli si ritirò dalla corte d’Egitto nel tempio Madian, e non certo per nascondersi; anzi, il suo intento era proprio quello di svelare se stesso ai suoi propri occhi.
Così Pitagora di Samo; prima di fondare la sua scuola e fermarsi a Crotone, viaggiò a lungo in solitudine alla ricerca della sua realtà interiore, e solo quando l’ebbe trovata si diede da fare per comunicarla agli altri.
Ancora: basta pensare a queste parole di Platone per rendersi conto di ciò che egli aveva fatto, poiché sarebbe maligno pensare che egli predicasse bene e razzolasse male: “Il pensiero dell’uomo deve prima avere per oggetto se stesso, astraendo dal suo corpo che gli è di impedimento, e solo allorché l’interno sarà chiarito, il pensiero potrà essere rivolto all’esterno, fruttuosamente per sé e per gli altri”.
E che dire del Cristo? Penso che voi tutti conosciate il fatto che, prima di incominciare a predicare il suo messaggio di fratellanza umana, digiunò per quaranta giorni nel deserto, e non mi sembra il caso di spiegare che le tentazioni che subì non erano certo opera del demonio ma provenivano dal suo intimo, ultimi bagliori del suo inconscio che egli dovette affrontare, conoscere e risolvere prima di poter davvero essere in grado di insegnare agli altri ciò che aveva compreso. Scifo


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6 commenti su “Si offre al prossimo ciò che si è conosciuto e compreso di sé”

  1. Vengono citati esempi di maestri che hanno lasciato tutto per dedicarsi completamente all’incontro con sé stessi. In passato ho vagheggiato questa possibilità nella mia vita, consideravo l’esempio come qualcosa di auspicabile e attuabile in chiunque, ma poi in realtà, per quanto mi riguarda almeno, vedo che la conoscenza di sé sta avvenendo gradualmente in un lavoro quotidiano e per la vita. Guardo adesso alle vite dei maestri soprattutto in senso simbolico, senza per questo negare che le esperienze narrate siano realmente accadute. Il simbolo parla della stretta relazione esistente tra svelamento di sé e apertura verso gli altri e questo vale sia quando si esprime come rivelazione intensa e più o meno improvvisa, sia quando il processo avviene gradualmente (e immagino che la modalità sia relativa al grado di evoluzione di una coscienza e alla rappresentazione che essa mette in atto per le sue necessità evolutive). Solo che in questo ultimo caso è più facile incorrere nella domanda che ci propone Scifo, almeno così per me è stato : “È giusto che io mi ritragga in me stesso, che mi ritragga dagli altri uomini che cercano il mio aiuto, o è più giusto che io mi dedichi a essi con tutte le mie forze?” La domanda è duale e il testo ci riporta nella giusta prospettiva.

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  2. A Roberta I.
    Sono completamente d’accordo con quanto dici.
    La domanda è davvero duale, ma penso che non possa essere che così, dal momento che non può che essere riferita al grado di evoluzione individuale che determina la maggiore o minore capacità dell’individuo nell’andare oltre se stesso a favore di chi ha più bisogno d’aiuto.

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  3. Per comprendere la Parola di un Maestro bisogna abbracciare tutta la sua vita, anche quella in cui taceva. È un forte richiamo ad una visione unitaria e non l’avevo finora tenuta in debita considerazione

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  4. Mi colpisce il concetto di “via di mezzo” che sento particolarmente vicina: il ritrarsi e il volgere verso l’altro sono alternanza in un cammino di comprensione.
    Non fermarsi mai nella ricerca interiore ma allo stesso tempo non forzare il comportamento oltre le comprensioni, lo vedo un rispetto indispensabile e non parlo di quelle piccole violenze che dobbiamo farci per andare avanti nel processo di conoscenza, consapevolezza e comprensione come R. ci invitava a fare in un post.
    Ma rispetto verso chi?
    Forse verso l’unitarieta’.
    Grazie

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