La differente gestione di emozioni e desideri [IF55-7focus]

Fino a quando l’individuo è incarnato, per grande che sia la sua evoluzione, possiede un Io.
Questo è un dato di fatto che molti tendono a dimenticare, eppure basta pensarci un attimo per rendersi conto che non può essere che così.

Infatti, senza i corpi inferiori (fisico, astrale e mentale) non vi può essere incarnazione e la necessaria presenza di questi tre corpi rende inevitabile la formazione dell’Io anche se, ovviamente, più o meno forte a seconda del grado di comprensione, e quindi di sentire di coscienza, dell’individuo incarnato. Si può perciò tranquillamente affermare che nessun essere incarnato, neppure il più grande Maestro che la storia dell’uomo abbia mai visto calcare il nostro bel pianeta, è (né può essere) privo dell’Io.

Se esiste un Io, esistono le emozioni e a capo di esse esistono i desideri.
Analizzare e cercare di comprendere, quindi, i propri desideri, è un’altra via attraverso la quale si può arrivare a conoscere se stessi, anche se, a mio avviso, parecchio più complessa di quella che passa attraverso l’analisi delle emozioni. Se, infatti, per quanto riguardava le emozioni poteva essere sufficiente porsi in una posizione di attenzione, per quanto riguarda il desiderio questo non basta più.

Infatti il desiderio ha una complessità ben maggiore di quella di un’emozione e la realtà del proprio desiderio è più difficile da scoprire.

Quando voi vi sentite tristi, osservando la vostra tristezza la potete individuare in una serie di condizioni interiori di umore, ma anche esteriori di comportamenti (spesso tendenti ad accentuarla per usarla al fine di ottenere attenzione dagli altri) sempre più o meno ripetitivi ed evidenti.

Nella maggior parte dei casi, invece, il desiderio non è individuabile esattamente, anche perché, solitamente, è costituito dalla somma di più desideri intrecciati tra loro a causa delle spinte che esso contiene e che provengono dalle materie di tutti i corpi dell’individuo che, in qualche maniera, lo alimentano, fino a quella che è la spinta generatrice più difficile da comprendere, ovvero quella che proviene dal corpo della coscienza.

Se voi desiderate essere famosi (per esaminare un caso generale e, come tale solo teorico) probabilmente il vostro desiderio è costituito, magari, in parte dal desiderio riflesso del vostro corpo astrale di sentirvi felici per la considerazione degli altri, poi da quello riflesso del vostro corpo mentale di sentirvi al di sopra degli altri, ma anche da quello che proviene dal corpo akasico che, nel caso di una buona evoluzione, potrebbe identificarsi, per esempio, nel desiderio di acquisire una posizione di rilievo nella società, in modo tale da potersi trovare in condizione di poter agire positivamente sugli altri.

Considerando, poi, che i desideri sono logicamente intrecciati tra di loro perché intersecantisi sono le spinte verso la comprensione (in quanto tendente all’unitarietà) provenienti dal corpo akasico, si può facilmente comprendere come l’osservare e districare i propri desideri sia alquanto difficile.

Indubbiamente più facile, per chi vuole conoscere se stesso, è osservare le proprie emozioni, individuarle, guardare le proprie reazioni ad esse e, poi, eventualmente, da esse cercare di risalire alla realtà dei desideri che le mettono in azione.

Con queste mie parole non intendo certamente dire che non potete arrivare a comprendere i vostri desideri e i loro perché; tuttavia penso che sia sempre meglio percorrere la via più semplice e che meno fa soffrire, perché tante piccole sofferenze (lo diciamo sempre) sono più facilmente superabili di una sola grande sofferenza.

Qualcuno di voi può chiedersi perché, di punto in bianco, accosto il concetto di sofferenza a quello di interpretazione dei propri desideri.

Avete ragione, forse ho presupposto troppo e non ho ben fatto comprendere un elemento importante: quando vi ponete nella posizione di chi cerca di conoscere se stesso, lo fate, inevitabilmente, spinti dal vostro Io, perché pensa che questo sia un modo di apparire migliore degli altri. È la vostra mente che osserva voi stessi, e la vostra mente non siete voi stessi ma è ciò che, in buona parte, contribuisce a formare il vostro Io.
È, quindi, col vostro Io che vi mettete a operare.

Siccome è inevitabile il fatto che cercare di conoscere se stessi porti a scoprire propri difetti, manchevolezze ed errori, è anche inevitabile che il vostro Io reagisca a queste scoperte poco gradite mettendo in moto meccanismi di contrasto interiore tra la verità personale che si va scoprendo e la verità che, invece, l’Io vorrebbe che fosse. Da questo contrasto nasce, appunto, la sofferenza a cui va incontro, inevitabilmente, chi cerca di conoscere se stesso.

“Ma allora chi me lo fa fare?” potrebbe obiettare qualcuno tra voi.
Nessuno, rispondo io, anche perché nessuno può obbligarvi a percorrere una strada se non la volete percorrere. O meglio: voi stessi, perché, giunti a un certo punto dell’evoluzione individuale è dal proprio corpo akasico che arriva la spinta alla comprensione di se stessi, spinta alla quale non si può sfuggire perché è una spinta personale, naturale e inevitabile.

Il Budda predicava l’assenza di desiderio, si dice.
Non è vero. Queste sono interpretazioni ed elaborazioni successive delle parole di quel Maestro. Egli diceva che la meta è l’assenza del desiderio, e che si deve cercare di operare nel mondo tenendo presente qual è la meta da raggiungere.

Volere l’assenza di desiderio, miei cari, equivale a desiderare e, quindi, diventa una contraddizione in termini, oltre a essere causa di problemi interiori: volere un’assenza di desiderio che non si è pronti a raggiungere provoca frustrazioni e forti reazioni dell’Io, alla stregua di quei religiosi che si ritirano dal mondo per fuggire le tentazioni della carne, quasi che potessero lasciare le loro incomprensioni al di fuori da un convento o ai piedi di una montagna.

L’unico risultato che, con un grande sforzo di volontà, possono ottenere è quello di crearsi una forte maschera che copre per una vita intera il loro modo di essere ma che, non essendo coscienza raggiunta, non sortirà altro effetto che quello di sfuggire un’esperienza che, evidentemente, dovevano affrontare perché solo così poteva essere risolto ciò che il corpo della coscienza doveva arrivare a comprendere.

“Se il mio desiderio di trovare la luce – disse una volta il maestro Nanak – fosse una candela, io non potrei fare a meno di continuare ad accenderla fino a quando, avendola consumata tutta, mi renderei conto che ho faticato tanto per avere la luce quando essa era già accesa dentro di me, ma non avevo gli occhi abbastanza aperti per scorgerne la luminosità.” Rodolfo


0 0 votes
Valutazione dell'articolo
Subscribe
Notificami
guest

4 Commenti
Oldest
Newest Most Voted
Inline Feedbacks
Vedi tutti commenti
Catia Belacchi

Grazie.

Anna

quando vi ponete nella posizione di chi cerca di conoscere se stesso, lo fate, inevitabilmente, spinti dal vostro Io, perché pensa che questo sia un modo di apparire migliore degli altri. È la vostra mente che osserva voi stessi, e la vostra mente non siete voi stessi ma è ciò che, in buona parte, contribuisce a formare il vostro Io.

Vanno sempre fatti i conti con il proprio io!!

Leonardo

Non sono convinto di questa affermazione:

“quando vi ponete nella posizione di chi cerca di conoscere se stesso, lo fate, inevitabilmente, spinti dal vostro Io”.

La spinta Vienna anche dalla coscienza, e credo che una certa consapevolezza, ampia, frutto delle comprensioni, diminuisca il ruolo dell’io a vantaggio dell'”analisi del “sentire.

Senza dimenticare che il “conosci te stesso” può sempre finire per diventare un “raccontatela”, a cui c’è sempre un rimedio: l”altro che ci svela.

Nadia

Interessante grazie.

4
0
Vuoi commentare?x