Favola della tigre
C’era una volta, parecchio tempo fa, in un piccolo paese dell’India, una famiglia composta da padre, madre, figliolo, figliola e un nonno.
Era una famiglia, né povera né ricca, di agricoltori che vivevano tranquillamente e senza troppe scosse all’interno del loro piccolo mondo, costituito dal villaggio e dalle terre che lo circondavano.
I loro averi non erano molti, ma bastavano a condurre avanti un’esistenza dignitosa ed erano, in un certo qual modo, onorati all’interno del villaggio in quanto il vecchio della famiglia era ritenuto molto saggio e molto sapiente.
I due figlioli – che si chiamavano Rasa, perché aveva lo sguardo dolce, e Rani, perché era bella e gentile, – passavano la maggior parte del tempo insieme al saggio nonno, poiché i genitori erano occupati per quasi tutto l’arco della giornata ad accudire i campi, le bestie e le faccende domestiche.
Il nonno era molto attaccato ai nipoti e, a mano a mano che essi crescevano, incominciava a pensare che essi avessero bisogno di capire cose più elevate e di poter passare loro una parte della sua saggezza.
Così incominciò, prima ancora che entrambi giungessero alla pubertà, a raccontar loro le antiche teorie che conosceva narrandole, chiaramente, come potevano essere raccontate a due fanciulli.
In breve arrivò a raccontare che le persone, quando morivano, non morivano definitivamente ma trasmigravano in un altro corpo, e che questa trasmigrazione era dettata da delle particolari leggi grazie alle quali se un individuo si fosse comportato in modo non moralmente giusto nel corso della sua esistenza, sarebbe rinato in un animale inferiore, mentre se si fosse comportato in maniera saggia e buona, la sua rinascita sarebbe stata certamente migliore di quella che aveva avuto nel corpo abbandonato.
Egli, per far capire meglio quanto andava dicendo, fece un esempio e parlò loro di sua moglie, una donna non molto buona e della quale conservava nel suo ricordo più che altro le infedeltà.
Così spiegò ai due ragazzi, e in particolare al più grande, Rasa, che la moglie certamente ormai si era già reincarnata e che, proprio a causa della sua infedeltà, della sua cattiveria e della sua facilità a graffiare, era stata destinata a rinascere in una tigre.
Ora accadde proprio in quel periodo che il giovinetto si recò nei campi per andare a raccogliere delle messi ma, appena giunto accanto ad un boschetto dove dei manghi spandevano il loro profumo per l’aria, si trovò improvvisamente di fronte ad una tigre.
Vi fu un momento di silenzio; la tigre muoveva solamente la punta della coda fissandolo, e lui la fissava a sua volta pensando: «Questa è senz’altro mia nonna», invece di fuggire.
Naturalmente potete immaginare ciò che la tigre fece di lui.
Alcuni giorni dopo – quando il pianto venne ricacciato indietro poiché la vita doveva continuare e, per forza, i genitori dovevano ritornare nei campi altrimenti non sarebbero riusciti a vivere – la fanciulla, parlando con il nonno, gli chiese come mai la nonna avesse fatto questo al fratello e il nonno assorto nei suoi tristi pensieri, le rispose: «L’avevo detto, ragazzi, l’avevo detto ed era vero che la nonna è diventata una mangiatrice d’uomini!».
La sera Rani dovette andare al piccolo fiume che scorreva accanto al villaggio per attingere acqua, ed era appena giunta accanto alle mangrovie che crescevano lungo le sponde del fiume, quando vide due gemme gialle splendenti in mezzo all’erba, e si trovò anch’essa di fronte alla tigre.
Ancora una volta vi fu un attimo di silenzio.
L’erba era agitata dalla punta della coda della tigre e la fanciulla rimase immobile ad osservare l’animale, molto intimorita.
Sembrò durare un’eternità ma alla fine la fanciulla, tranquillizzata da quanto aveva detto il nonno, si avvicinò ancora di più alla riva senza curarsi della tigre.
Ma la tigre si curò di lei e la famiglia restò così priva dei suoi virgulti.
Di seguito pubblichiamo l’intervento delle Guide e omettiamo la discussione tra i partecipanti per ragioni di lunghezza. Chi desidera consultare il file originale, lo trova qui.
L’incontro con le Guide
Allora, miei cari, anche io, come gli altri, vi ho sentito discutere e sono concorde con buona parte di quanto avete affermato.
Certo che le prospettive in cui le favole di Ananda possono essere osservate – come spesso abbiamo affermato – sono molte, e tutti vi siete mantenuti più o meno fedeli a una prospettiva, però se io vi chiedessi, in questo momento, qual è l’interprete principale della favola voi cosa direste?
D – Il lettore della favola? La tigre? Il nonno? I bambini? Il «sentire» perché i bambini devono tirarlo in superficie…
Come siete ingenue, creature: non mi interessava assolutamente sapere se avevate individuato l’interprete principale della favola, ma mi interessava che restassero registrate le vostre risposte!
Prima di tutto perché questo dimostra come siete diversi l’uno dall’altro (poche sono state le risposte simili, e quelle poche via via modificate da quanto gli altri dicevano), e anche perché se questi incontri sono fatti per aiutarvi a comprendere non soltanto l’insegnamento ma, di riflesso, anche voi stessi, potreste per una volta provare a usare le risposte che ognuno di voi ha dato per chiedervi perché vi ha colpito proprio quell’aspetto per cui avete dato proprio quella risposta; non adesso, naturalmente: con calma e, forse, è un lavoro che dovete fare da voi stessi con voi stessi, più che con gli altri.
Ma, al di là di questo esempio di applicazione pratica di quanto noi andiamo dicendo sul conoscere se stessi, ritorniamo alla favola vera e propria.
Nel contesto della favola l’interprete principale è la tigre, in quanto impersonificazione, concretizzazione degli effetti dell’insegnamento del nonno.
O meglio: abbiamo un vecchio, presunto saggio, che porta un insegnamento ai suoi discepoli (infatti i bambini, nei confronti del nonno, in fondo non sono altro che discepoli); un vecchio che crede in quello che dice e, certamente, non aveva alcuna intenzione di fare del male ai suoi discepoli; un vecchio che porta un insegnamento che d’altra parte, come tutti voi sapete, è completamente sbagliato, assurdo, in quanto non c’è nessun essere umano che si possa reincarnare in un animale con una coscienza inferiore quale può essere la tigre.
Vi è la tigre che non è altro che la materializzazione, nel mondo della realtà, dell’esperienza, di quanto il maestro (o presunto tale) cercava di insegnare; quindi può anche essere interpretata, come avete fatto, come la realtà. Un doppio simbolismo, quindi, per la tigre.
Allora, sotto questa luce, che significato può avere l’andare verso un’inconsapevole morte da parte dei due ragazzi? Può semplicemente indicare quello che dava il titolo alla riunione di oggi, ovvero: «quali sono le insidie dell’insegnamento?» e, quindi, avvisare di non fare come tutti siete soliti fare, cioè giudicare l’insegnante e non ciò che egli insegna!
Perché, vedete, i bambini dimostrano di avere ascoltato l’insegnamento del nonno e che, tutto sommato, gli hanno creduto e che l’hanno preso come oro colato.
Ma sono stati dei cattivi discepoli perché non hanno messo niente di loro in quanto il nonno ha cercato loro di trasmettere: il vero maestro insegna al discepolo affinché questi metta in atto (o elabori, o crei su ciò che egli ha insegnato) qualche cosa di utile; invece loro, semplicemente, hanno preso atto della cosa e l’hanno accettata e applicata senza minimamente porsi alcuna domanda, diventando così, in quel momento, come degli asini col paraocchi che vedono soltanto la carota e non si accorgono che sotto c’è un baratro.
Naturalmente interpreto in questo modo in quanto, oggi, era proprio questo il tema dell’incontro e, quindi, questa è l’ottica che abbiamo voluto dare alla favola. Ma se, magari fra due o tre cicli, decidessimo di ricominciare questa serie di incontri sulle favole chissà, potremmo dare un altro tema e la favola potrebbe essere interpretata in tutt’altra direzione. Questo per rendervi coscienti che il simbolismo in realtà permette – come io sempre son solito dire – di interpretare qualsiasi cosa in qualsiasi modo… se soltanto uno ha l’agilità mentale per riuscire a farlo.
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D – Non mi pare che i ragazzi abbiano preso alla lettera quanto il nonno aveva detto: questi aveva detto loro che la tigre azzannava, ma loro sono rimasti passivi di fronte alla tigre, non hanno ascoltato al cento per cento.
L’hanno ascoltato ma, prima di tutto, non hanno fatto il minimo sforzo per capire ciò che il nonno stava dicendo. Perché se, veramente, avessero voluto fare lo sforzo di capire e di essere dei buoni discepoli, allora si sarebbero anche ricordati del fatto che il nonno diceva che la nonna graffiava e che, quindi, era pericolosa. Loro hanno preso questo dono del nonno, l’hanno messo in tasca e basta. E questo non è, certamente, essere un buon discepolo e seguire bene un insegnamento.
D – Ma mi sembra che se lui ha insegnato e ha detto, per lo meno: «attenti che è pericolosa», loro sono rimasti indifferenti al punto da andare incontro alla morte con indifferenza.
E qua abbiamo un altro aspetto molto importante: tutti coloro che si avvicinano agli insegnamenti un po’ diversi dal solito come possono essere i nostri o altri, tendono a ricordare, a trattenere, a curarsi di ciò che nell’insegnamento riguarda la parte «strana», la parte eccezionale (come può essere la reincarnazione in una tigre), la parte fenomenica e via e via e via, perdendo, poi, il contatto con la realtà.
I due ragazzi hanno sentito l’insegnamento del nonno, l’hanno accettato o, per lo meno, hanno introiettato ciò che più li ha colpiti, ciò che più ha colpito la loro fantasia, ovvero il fatto che la nonna potesse essere incarnata in una tigre. E che, poi, la nonna graffiasse o meno, tutto sommato, era un problema del maestro e non il loro e, quindi, per loro non contava molto, così non ne han tenuto conto.
D – Ma han tenuto molto conto che era la nonna.
In realtà, il fatto che potesse essere la nonna non li ha interessati minimamente: è il fatto che ci fosse stata la reincarnazione della nonna nella tigre, quello che aveva colpito la loro fantasia, quello che, in qualche modo, li aveva fatti sentire – come capita, ahimè, così spesso, tra di voi – al di sopra della norma, in quanto conoscevano qualcosa che gli altri non potevano immaginare.
C’è qualcuno accanto a me che ride, perché sa quanto spesso, in questo ambiente, accade che le persone vengano ammaliate, affascinate, dall’idea di fare viaggi astrali, dall’idea di essere stati dei faraoni nelle vite precedenti, dall’idea di avere dei poteri particolari, dall’idea di poter guarire gli altri, dall’idea di poter essere d’aiuto per tutte le persone sofferenti e via, e via e via… ma poi, quando si guardano un attimo con attenzione, ci si accorge che queste persone, ahimè, non hanno potere su se stesse, e come possono averne sugli altri?
Non riescono a guarire le proprie malattie, e come possono guarire quelle degli altri?
Non conoscono la propria interiorità, e come fanno a conoscere quella degli altri?
Non riescono a fare un piccolo viaggio all’interno del proprio Io e che cosa può servire loro viaggiare nell’astrale?
Eppure molti si fermano, attratti da questa parte di contorno dei vari insegnamenti e, come i due ragazzi della favola, molto spesso finiscono con l’essere divorati dal contorno invece di divorare loro il contorno.
Questa è una delle insidie dell’insegnamento: il fermarsi soltanto a ciò che fa piacere o che appaga, cercando di evitare ciò che, magari, costringe a pensare e porta di fronte alla propria sofferenza, al proprio dolore, ai propri bisogni, alle proprie inesperienze, al proprio egoismo… e sapete voi quante cose ci sono da aggiungere!
Ma, in realtà, qualsiasi insegnamento ha il suo frutto migliore proprio nel condurre di fronte a se stessi, non nella possibilità di essere un gradino più in alto di ciò che sono coloro che stanno intorno.
Ecco, quindi, che da questo discorso consegue che per seguire un insegnamento, qualunque esso sia, è necessario, prima di tutto, (e non soltanto necessario ma addirittura essenziale) che vi sia una grande umiltà, altrimenti l’insegnamento vissuto, anche inconsciamente, come volontà di potenza nei confronti degli altri, non verrà compreso e porterà a ripercussioni karmiche dolorose in quanto si finirà, quasi sempre, col perdere il contatto con la realtà e, un po’ alla volta, con l’incominciare a dimenticarsi di coloro che stanno intorno: si incomincerà a non vedere più le mani tese che han bisogno, si incomincerà a dimenticare le responsabilità che ognuno ha nella propria vita perdendosi in un labirinto di fantasie dal quale è poi difficile uscire.
Anche perché è così facile compensare, a volte, lo squallore di una vita come quella che spesso voi vivete, con sogni di grandi poteri e di grandi possibilità e capacità… ma, forse, stiamo andando al di là della semplice favola della tigre e, siccome non vorrei annoiarvi, allora preferirei che foste voi ad annoiare me con le vostre domande!
D – Mi sembra che quello che hai detto sia tutto molto giusto.
Mi fa piacere, e queste cose vanno dette proprio a voi che siete non dico «giovani» ma «nuovi» accanto a noi («nuovi» in questa vita, quanto meno) in quanto è bene che sappiate fin dall’inizio che possono esservi dei pericoli, e che è necessario vivere tutto questo con equilibrio per riuscire a trarne dei frutti per se stessi.
Se ci pensate bene, in partenza il discepolo si avvicina al maestro per egoismo, non per altruismo: si avvicina al maestro perché ha bisogno di crescere, perché ha bisogno di prendere, ha bisogno di comprendere, magari col fine ultimo di dare agli altri ma, inizialmente, deve completare il suo egoismo e prendere tutto ciò che gli può servire.
Se non ci fosse il suo egoismo sarebbe fermo e da questo si deduce che anche l’egoismo è una fase necessaria e utile, senza la quale l’individuo resterebbe immobile.
Ah, che bello, che gran Pensatore è stato il Divino che è riuscito a creare un equilibrio così perfetto e in cui ogni cosa è necessaria, è utile e serve a crescere!
D – Ma c’entra la storia degli affetti? Io ho interpretato nel senso che non essendo ancora arrivati a un amore globale necessitiamo di affetti che ci colpiscono di più.
Questo è normale, è un discorso normalissimo, della psicologia dell’uomo di tutti i giorni.
Diciamo però che, anche quando sarete più avanti, un affetto vicino vi darà di più di un affetto lontano: certo che siete tutti fratelli (non parlo, naturalmente, di chi ha raggiunto Dio, perché chi raggiunge la fusione con l’Assoluto, in quel momento è anche tutti gli altri uomini e, quindi, non vi è più affetto vicino o affetto lontano), ma certamente un individuo, ad esempio, alle ultime incarnazioni, sente ancora una qualche differenza poiché, quanto meno, l’affetto lontano non include ad esempio l’elemento sensoriale e il fatto di vedere la persona amata aiuta l’affetto.
L’affetto non è fatto soltanto di sentimento, di pensiero o di sensazione, è fatto anche di fisicità: un bambino piccolo deve essere toccato per crescere, per imparare, per sentire l’affetto e voi, nel vostro mondo interiore, siete ancora, all’interno, come dei bambini piccoli che hanno bisogno di essere toccati oltre che fatti ragionare e vezzeggiati… ed è anche per questo, fra l’altro, che Michel passa ad accarezzarvi!
D – Non ho capito una cosa quando hai analizzato le figure del maestro e del discepolo: hai mosso una critica al discepolo, al maestro o a tutti e due?
A tutti e due, senza dubbio: il vero maestro è colui che dà l’insegnamento agli altri sapendo quale insegnamento dare e come darlo, in base a quelli che sa essere i bisogni del discepolo.
Il nonno, se fosse stato un vero maestro, avrebbe saputo che i nipoti avrebbero dovuto imparare la cosa morendo per i denti della tigre… ma, senz’altro non lo era, anche perché questo nonno (poveraccio: così criticato questa sera) non è che si tacciasse poi di maestro: semplicemente cercava di passare la sua poca conoscenza ai suoi nipoti, sbagliando ma in buona fede.
Comunque, senza dubbio, il vero maestro riesce a fare quanto ho detto prima, così come il vero discepolo riesce ad ascoltare il maestro e a fare una cosa non soltanto perché il maestro glielo dice, ma riesce a comprendere ciò che dice il maestro e a farlo perché sente che ciò che il maestro dice è giusto. È ben diversa la cosa!
Vi è sempre, quindi, una condizione attiva da parte del discepolo, e mai passiva, perché nel momento che la condizione è passiva il discepolo non riuscirà a smuoversi da quelli che sono i suoi limiti in quel momento.
D – In questo senso, quindi, il discepolo è anche maestro di se stesso.
Ah, senza dubbio: nessun maestro riesce ad insegnare niente a chi non vuole che gli venga insegnato, questo senza alcun’ombra di dubbio.
E poi, creature, non lasciatevi affascinare – visto che parliamo delle insidie dell’insegnamento – dall’idea di un guru (incarnato o meno), di un maestro (incarnato o meno) e via, e via, e via.
Ricordate che è difficile che possiate incontrare un maestro totale, ma è molto facile che chi vi sta accanto, anche senza saperlo, vi sia maestro, magari inconsapevolmente!
Però ognuno di voi è canale di quel Gran Maestro che guida tutto il disegno dell’universo e, quindi, può essere portatore di doni per altri uomini. Invece tutti voi tendete ad ascoltare, solitamente, ciò che dice un (presunto o dichiarato tale) maestro, mentre tendete a ignorare ciò che vi dice – magari con maggior saggezza e aderenza alla realtà! – il vostro vicino di casa!
D – È un discorso proprio generico perché nei tempi attuali è difficile instaurare un rapporto con un vicino di casa.
Cara, scusami, ma questo è un luogo comune e, secondo me, sciocco (e scusa se te lo dico): tu cosa fai perché il vicino di casa non ti dica «buongiorno» o «buonasera» e basta?
D – Quando ho cambiato casa, per farmi conoscere, ho preparato delle torte e le ho portate ai miei vicini, ma è tutto finito lì. Si parla tanto di fratellanza però ci si scontra sempre con la freddezza degli altri…
Può darsi che non gli piacessero le torte! Scherzi a parte, può essere che il tuo modo di dare fratellanza sia un modo che gli altri non riescono ad accettare… ma stiamo andando fuori tema: qualche altra domanda?
D – È difficile per chi si avvicina a questi insegnamenti non subire il fascino del maestro!
Questo senza dubbio, ed è per questo che noi così spesso mettiamo in guardia: perché non vogliamo dei robot, degli individui incantati e pendenti dalle nostre labbra… se volessimo quello potremmo fare cose meravigliose per ottenerlo, però non abbiamo nessun Io da appagare e a noi interessa solo che voi comprendiate e cresciate.
D – Credi che io sia troppo incantato e penda troppo dalle vostre labbra?
Per il momento no, ma potrebbe accadere e lo strumento finirebbe col trovarsi in difficoltà perché pesando quello che pesi si troverebbe col labbro fino a terra!
Bene, basta scherzare, creature. Prima di salutarvi con il solito affetto voglio ricordarvi una cosa, a proposito delle favole di Ananda: molto spesso nelle sue favole ci sono elementi che sfuggono a chi cerca di esaminarle e che, molto spesso, sono delle tracce di interpretazione o chiavi di lettura della favola stessa.
Una delle tecniche comuni è quella di ripetere più di una volta un particolare preciso, come se fosse una luce che lampeggia per indicare qualche cosa. Io vi chiedo di pensare (e poi ne parlerete, magari, al prossimo incontro): che significato può avere la punta della coda della tigre che si muove nell’erba? Scifo
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Bisogna sempre nutrire uno spiccato spirito critico, che altro non significa che autonomia di giudizio. Oltremodo va ricordato che occorre ascoltare il proprio sentire, per comprendere la direzione.
Occorre avere la volontà di tentare e anche di sbagliare, perché sbagliare è necessario e a noi richiesto, nel nostro cammino.
Oltre il giudizio non esiste né discepolo né maestro.
Grazie.
Maestro è colui capace di insinuare un dubbio, un concetto, che metta in crisi un equilibrio.
Discepolo è colui che utilizza quella crisi per metabolizzare un nuovo equilibrio attraverso il suo sentire e la sua esperienza.
Niente è predefinito, niente fisso, niente assoluto.
Questo il grande gioco della Vita!
Devo rifletterci su. Grazie.
A dire il vero quando si insegna ai bambini dire una cosa come quella detta dal nonno è pericolosissima, perché i bambini si fidano dell insegnante e non mettono in discussione l insegnamento.
Quella favola poteva essere adatta solo a degli adulti i quali avrebbero potuto discernere tra tigre reale e metaforica.
Molto interessante. Tutto il tema del maestro e discepolo e delle insidie che si nascondono nell’esperire queste funzioni, sono temi di assoluta attualità.
Essere capaci di discernimento, questo è il centro e, questo sarà possibile quanto più saremo attivi nel percorso di conoscenza di sé.